Correva l’anno 1980 quando Pier Vittorio Tondelli, scrittore, giornalista, talent scout di giovani e promettenti narratori, dava alle stampe quella che sarebbe diventata una delle opere cult di un intero decennio e di una generazione: Altri libertini.
Parlare di quest’opera senza aver vissuto in prima persona i cambiamenti, le innovazioni e i tumulti di quegli anni è, con buona probabilità, un’impresa che potrà riuscire bene solo in parte; tuttavia ne avverto la necessità sin da quando, poco dopo il primo caffè del mattino, ne ho girato l’ultima pagina. Questo bisogno quasi impellente nasce dall’euforia e dallo stordimento che la penna di Tondelli ha provocato nella mia coscienza, risvegliatasi come da un lungo torpore e scaraventata senza troppi complimenti in una realtà distante ma, al tempo stesso, vicina.
Le voci dei libertini di Tondelli sono volutamente provocatorie e sopra le righe, sono la testimonianza di una gioventù che non vuole arrendersi di fronte all’imposizione di stili e modelli di vita considerati giusti e socialmente accettabili; al tempo stesso, però, sono anche l’esempio lampante degli effetti che la cultura postmoderna ha portato con sé: tutti loro cercano di vivere vite alternative senza rendersi conto di essere, inevitabilmente, imbrigliati all’interno della rete del consumismo, della massificazione, della produttività.
I libertini di Tondelli sono tutti, chi più chi meno, giovani: c’è chi ha consacrato la propria esistenza all’alcool e alle droghe, chi al sesso e alla promiscuità, chi ancora non ha le idee chiare riguardo il proprio futuro, chi campa alla giornata e chi decide di esplorare l’Europa a bordo di una macchina sgangherata seguendo l’odore del mare del Nord.
I personaggi dei sei racconti che compongono quest’antologia postmoderna (o, come direbbe Tondelli, di questo romanzo a puntate) sono accomunati dal profondo senso di solitudine e di vuoto che la società consumistica e capitalistica ha costruito attorno a loro: si tratta di un processo iniziato in seguito al boom economico degli anni ‘50/’60, e aumentato esponenzialmente tra gli anni ’70 e gli anni ’80, in cui ogni esperienza e ogni rapporto umano sono stati ridotti ad un simulacro vuoto, ad una merce di scambio priva di valore, intercambiabile e sostituibile in poche e semplici mosse.
E qui sta la grandezza di quest’opera: Tondelli ha colto con estrema sensibilità questo cambiamento – che non è stato affatto immediato, bensì progressivo – e lo ha narrato dall’interno, ha mescolato tutte le voci, le esperienze, gli oggetti, i luoghi, i rapporti, i sentimenti possibili al fine di dimostrare la loro sostanziale vacuità. Il caos interiore si riflette, inevitabilmente, anche a livello linguistico: Altri libertini è un vulcano in cui scorre un magma di linguaggi notevole; si tratta, perlopiù, di elementi gergali tipici del lessico giovanile emiliano, conosciuto e parlato dall’autore stesso; accanto a questi inserti dialettali troviamo, inoltre, un italiano che potremmo definire “medio”, affiancato qua e là da prestiti dall’inglese e, addirittura, dal latino. Evidente è la volontà di Tondelli di riprodurre in forma narrata i linguaggi provenienti dai mezzi di comunicazione di massa che, proprio in quegli anni, avevano conosciuto una diffusione senza precedenti: televisione, radio, cinema, fumetti. Una mescolanza di linguaggi così ardita non poteva che essere supportata da una prosa ritmata e sempre vivace, scattante e colorita, spesso eccessivamente eccentrica: a causa di contenuti molto espliciti, Altri libertini è stato sequestrato, poco dopo la sua pubblicazione, dal Procuratore de L’Aquila con l’accusa di oltraggio alla pubblica morale. Il successo che ebbe tra il pubblico fu, nonostante tutto, notevole e costituì un vero e proprio caso senza precedenti, un’opera cult, testimone senza scrupoli e senza veli di un’epoca che ha decretato un cambiamento irreversibile, con il quale continuiamo tutt’oggi a fare i conti.